mercoledì 9 maggio 2018

LA CASA DELLA FANCIULLA


Settembre 1989. É un lunedì pomeriggio ( primo giorno di scuola) che vengo lasciata, valigia in mano, sulla porta della casa della Fanciulla di Pordenone, in zona Sacro Cuore.
Eravamo già stati qui per un colloquio con il prete che dirigeva il posto, durante l'estate, dopo la mia ammissione alla Oxford School di Pordenone ( Liceo linguistico).
Credo che mi ricorderò per tutta la vita la domanda "cardine" che il direttore fece a mia madre previa la mia ammissione in Istituto:" Vuole che abbia la libera uscita dalle 15 alle 17? Non più tardi perché dopo escono i ragazzi dalle caserme, comunque non lo consiglio..."
OMG!
Alla fine scoprirete che seppur burbero, il don aveva un cuore d'oro. É venuto a mancare quest'anno da qualche mese. Purtroppo l'ho saputo a funerale avvenuto, sarei andata volentieri a salutarlo un'ultima volta. Se lo meritava, per essere stato giusto con me e per la bontà d'animo che ha dimostrato molto prima che io nascessi, verso gli ertocassanesi all'alba dell'immane disastro che colpì la mia gente. Questo e molto altro era Don Giovanni Perin.

Ricordo quel primo giorno come se fosse ieri, le lacrime ( di coccodrillo) di mia mamma sulla porta mente io con un freddezza che dentro non sentivo per niente le dico "vai, io sto bene".
Non posso dire di essere "stata male" durante i quattro anni passati in collegio forse perché in compagnia di Attila probabilmente le emozioni, belle o brutte, non arrivavano perché la "pancia" era già piena!
Davanti all'Istituto c'era un grande supermercato che visitavo con cadenza quasi quotidiana, poi ho imparato a fare "scorta" di "cibo spazzatura" perché iniziavo a vergognarmi a passare tanto spesso di là ( venivo riconosciuta dai commessi).

Mi pareva, ieri come oggi, che la gente fissasse quanto avevo nel carrello e lo giudicasse. Purtroppo è così, anche adesso quando vado a fare la spesa, nonostante la mia alimentazione sia decisamente migliorata, se devo comprare "cibo spazzatura", tipo patatine, bibite gassate e dolci vado in orari in cui i negozi sono quasi vuoti e in posti diversi se gli acquisti sono ( nella mia testa ) "troppo ravvicinati". Credetemi oggi al massimo compro della cioccolata e una volta al mese un pacchetto di patatine che tra l'altro mi ci vuole una settimana a mangiarlo intero. Nessun quantitativo strano come quando mi abbuffavo ma la vergogna e il senso di colpa sono comunque sempre presenti.

Certo probabilmente mi farei un favore a non comprare nemmeno quel po e spero prima o poi di arrivare anche a questo. Seppur riconosco "razionalmente" di avere dei peccati di gola sporadici e "accettabili" la paura di ricaderci è sempre in agguato, tanto che da qualche settimana non ci dormo neppure la notte.

Vorrei davvero riuscire ad amarmi totalmente, vedo che sto facendo dei piccoli passi che però per il mio "io giudicante" sono sempre troppo piccoli, anche se magari non è davvero così. La vedo lontana come conquista ma grazie a questo blog sento di riuscire a tenere la barra diritta.

Quando si sente in giro la frase fatta o "retorica" tipo "siamo i più severi giudici di noi stessi" questa volta devo dire che purtroppo è vera. Dovremmo essere decisamente più indulgenti verso di noi ma "essersi continuamente sentiti dire di non essere abbastanza o di essere sbagliati o di non essere in grado di fare" ci ha reso duri e deboli allo stesso tempo. Che combinazione eh?

È in quel giorno di settembre che io e Attila diventiamo amici e lo siamo ancora oggi, quante abbuffate, quanti pianti, quanti pomeriggi/sera passati a mangiare sulla scrivania guardano fuori dalla finestra o leggendo un romanzo rosa.. Il cibo in Istituto era abbondante ma decisamente non buono, per cui dopo aver mangiato quello era "doveroso fare bocca buona" con un po di cibo spazzatura o almeno era quello che mi dicevo.
Non avevamo il frigo in camera (camere singole) e quindi solo cose a lunga conservazione, se erano fresche: affettati, budino ecc dovevano essere comprati e mangiati. A malapena potevamo tenere la televisione, alle 21 doveva essere tutto spento. Per fortuna già allora il don era in là con gli anni e quindi faceva molta fatica a fare tutti i piani a piedi per l'ispezione serale e lo si sentiva arrivare dalla tosse e dal fiatone: quindi si faceva in tempo a spegnere la tv per poi riaccenderla qualche tempo dopo.

Quell'anno riuscii ad ingrassare di circa 40 kg. Mi mancava la mia realtà, Vajont, i miei amici, zia Maìa e le serate spensierate nei prati. Senza i miei genitori ero abituata a stare, il sentimento predominante era la delusione e il disprezzo. Nemmeno la morte della zia mi aveva permesso di "avere una famiglia". Guardavo di buon occhio però gli "inverni" quando ad attività chiusa restavo due mesi e mezzo a casa con loro e potevo fare avanti e indietro "quotidianamente" in corriera insieme agli amici di sempre e riprendere i contatti: quella volta non esistevano i telefonini e nemmeno internet. In genere erano mesi in cui ero perlopiù a "dieta" perché mia mamma aveva i momenti in cui "doveva fare la madre e aiutarmi con i miei problemi" che alla fine penso fossero i suoi più che i miei.

Da quel settembre inizio a "percepire" la paghetta settimanale perché "non si sa mai". Non mi veniva chiesto come spendevo il denaro e il lunedì successivo prima di salutarci per la settimana mi veniva data la stessa somma. Regolarmente spesa in cibo.

Anni dopo in una delle rare discussioni con mia madre ( preferivo e preferisco non affrontarla se proprio non sono "alla frutta"), ricordo bene che mi fu detto che la "paghetta settimanale" prima veniva data a zia Maìa perché" mi guardasse", perché negli anni "l'ha pagata" molto più di quanto non fosse necessario e che "tenermi con sé le era convenuto e non si era trattato di buon cuore".
Mi ha infranto l'unica certezza che portavo con me: l'amore di zia Maìa.

È da pochi anni, da adulta, che ho potuto rivedere gli avvenimenti per quello che sono stati e quanto detto in quella infelice occasione altro non  fu che "un modo di difendersi dando la colpa ad altri per le proprie mancanze" messo in atto da mia mamma: modus operandi che utilizza ancora oggi ogni volta che le conviene. Ma per la me adolescente fu lacerante, fu come se "mi avessero strappato il cuore a morsi". E Attila in soccorso, presente e confortante!

Mi viene da piangere ancora oggi ripensando a quando dopo aver fatto la spesa se nel resto mi veniva dato un gettone al posto delle "duecento lire" lo usavo per telefonare: volevo sentire una voce amica a Vajont, ma poi forse mangiavo ancora di più: "il dolore della perdita" è sempre stata la leva più potente per svegliare Attila e lo è ancora oggi.

È di questi giorni l'ennesima situazione in cui non mi sono sentita capita, passi da mia madre, ma anche da chi mi sta vicino e il senso di "solitudine" per non essere "vista/accettata" o meglio che "non vengano viste le emozioni che provo e i miei bisogni", mi fa scattare Attila e la voglia di mangiare. Non va bene.

La cosa più semplice sarebbe eliminare le situazioni/persone che mi fanno sentire così ma sarebbe una strada sbagliata anche se semplice ed efficace perché ci sarà sempre una situazione o una persona che mi potrà far "sentire così" e non posso continuare ad eliminare. Quello che devo eliminare è la mia scarsa autostima, devo imparare a tirare fuori il mio disagio e a farlo presente anche se diventa ingombrante e può portare le persone a volersi allontanare, i miei bisogni non dovranno mai più essere messi in secondo piano per nessuno.

Con mia mamma ancora lo faccio, preferisco stare zitta laddove invece con gli altri vado via dritta e dura. Ma lei è il mio personale tallone di Achille e non so quando veramente riuscirò a sentirmi libera con lei. Intanto iniziamo dal contorno, chissà che questo non mi renda più forte.

Sono stati quattro anni ( il quinto anno il collegio chiuse e rimasi a Vajont da sola) tra alti e bassi, tra chili presi e chili persi, nel frattempo zio Giovanni si uccise e quel po di me che restava se ne andò con lui: qui un angelo venne in mio soccorso, ma questa ve la racconto un'altra volta.

Alla prossima!