Settembre 1989. É un lunedì pomeriggio
( primo giorno di scuola) che vengo lasciata, valigia in mano, sulla porta
della casa della Fanciulla di Pordenone, in zona Sacro Cuore.
Eravamo già stati qui per un
colloquio con il prete che dirigeva il posto, durante l'estate, dopo la mia
ammissione alla Oxford School di Pordenone ( Liceo linguistico).
Credo che mi ricorderò per tutta
la vita la domanda "cardine" che il direttore fece a mia madre previa
la mia ammissione in Istituto:" Vuole
che abbia la libera uscita dalle 15 alle 17? Non più tardi perché dopo escono i
ragazzi dalle caserme, comunque non lo consiglio..."
OMG!
Alla fine scoprirete che seppur
burbero, il don aveva un cuore d'oro. É venuto a mancare quest'anno da qualche
mese. Purtroppo l'ho saputo a funerale avvenuto, sarei andata volentieri a
salutarlo un'ultima volta. Se lo meritava, per essere stato giusto con me e per
la bontà d'animo che ha dimostrato molto prima che io nascessi, verso gli
ertocassanesi all'alba dell'immane disastro che colpì la mia gente. Questo e
molto altro era Don Giovanni Perin.
Ricordo quel primo giorno come se
fosse ieri, le lacrime ( di coccodrillo) di mia mamma sulla porta mente io con
un freddezza che dentro non sentivo per niente le dico "vai, io sto bene".
Non posso dire di essere
"stata male" durante i quattro anni passati in collegio forse perché
in compagnia di Attila probabilmente le emozioni, belle o brutte, non
arrivavano perché la "pancia" era già piena!
Davanti all'Istituto c'era un
grande supermercato che visitavo con cadenza quasi quotidiana, poi ho imparato
a fare "scorta" di "cibo spazzatura" perché iniziavo a vergognarmi
a passare tanto spesso di là ( venivo riconosciuta dai commessi).
Mi pareva, ieri come oggi, che la
gente fissasse quanto avevo nel carrello e lo giudicasse. Purtroppo è così,
anche adesso quando vado a fare la spesa, nonostante la mia alimentazione sia
decisamente migliorata, se devo comprare "cibo spazzatura", tipo
patatine, bibite gassate e dolci vado in orari in cui i negozi sono quasi vuoti
e in posti diversi se gli acquisti sono ( nella mia testa ) "troppo
ravvicinati". Credetemi oggi al massimo compro della cioccolata e una
volta al mese un pacchetto di patatine che tra l'altro mi ci vuole una
settimana a mangiarlo intero. Nessun quantitativo strano come quando mi
abbuffavo ma la vergogna e il senso di colpa sono comunque sempre presenti.
Certo probabilmente mi farei un
favore a non comprare nemmeno quel po e spero prima o poi di arrivare anche a
questo. Seppur riconosco "razionalmente" di avere dei peccati di gola
sporadici e "accettabili" la paura di ricaderci è sempre in agguato,
tanto che da qualche settimana non ci dormo neppure la notte.
Vorrei davvero riuscire ad amarmi
totalmente, vedo che sto facendo dei piccoli passi che però per il mio "io
giudicante" sono sempre troppo piccoli, anche se magari non è davvero
così. La vedo lontana come conquista ma grazie a questo blog sento di riuscire
a tenere la barra diritta.
Quando si sente in giro la frase
fatta o "retorica" tipo "siamo i più severi giudici di noi
stessi" questa volta devo dire che purtroppo è vera. Dovremmo essere
decisamente più indulgenti verso di noi ma "essersi continuamente sentiti
dire di non essere abbastanza o di essere sbagliati o di non essere in grado di
fare" ci ha reso duri e deboli allo stesso tempo. Che combinazione eh?
È in quel giorno di settembre che
io e Attila diventiamo amici e lo siamo ancora oggi, quante abbuffate, quanti
pianti, quanti pomeriggi/sera passati a mangiare sulla scrivania guardano fuori
dalla finestra o leggendo un romanzo rosa.. Il cibo in Istituto era abbondante
ma decisamente non buono, per cui dopo aver mangiato quello era "doveroso
fare bocca buona" con un po di cibo spazzatura o almeno era quello che mi
dicevo.
Non avevamo il frigo in camera (camere
singole) e quindi solo cose a lunga conservazione, se erano fresche: affettati,
budino ecc dovevano essere comprati e mangiati. A malapena potevamo tenere la
televisione, alle 21 doveva essere tutto spento. Per fortuna già allora il don
era in là con gli anni e quindi faceva molta fatica a fare tutti i piani a
piedi per l'ispezione serale e lo si sentiva arrivare dalla tosse e dal
fiatone: quindi si faceva in tempo a spegnere la tv per poi riaccenderla
qualche tempo dopo.
Quell'anno riuscii ad ingrassare
di circa 40 kg. Mi mancava la mia realtà, Vajont, i miei amici, zia Maìa e le
serate spensierate nei prati. Senza i miei genitori ero abituata a stare, il
sentimento predominante era la delusione e il disprezzo. Nemmeno la morte della
zia mi aveva permesso di "avere una
famiglia". Guardavo di buon occhio però gli "inverni" quando
ad attività chiusa restavo due mesi e mezzo a casa con loro e potevo fare
avanti e indietro "quotidianamente" in corriera insieme agli amici di
sempre e riprendere i contatti: quella volta non esistevano i telefonini e
nemmeno internet. In genere erano mesi in cui ero perlopiù a "dieta"
perché mia mamma aveva i momenti in cui "doveva fare la madre e
aiutarmi con i miei problemi" che alla fine penso fossero i suoi più
che i miei.
Da quel settembre inizio a
"percepire" la paghetta settimanale perché "non si sa mai".
Non mi veniva chiesto come spendevo il denaro e il lunedì successivo prima di
salutarci per la settimana mi veniva data la stessa somma. Regolarmente spesa in cibo.
Anni dopo in una delle rare
discussioni con mia madre ( preferivo e preferisco non affrontarla se proprio
non sono "alla frutta"), ricordo bene che mi fu detto che la "paghetta settimanale" prima veniva data a
zia Maìa perché" mi guardasse", perché negli anni "l'ha
pagata" molto più di quanto non fosse necessario e che "tenermi con
sé le era convenuto e non si era trattato di buon cuore".
Mi ha infranto l'unica certezza che portavo con me: l'amore di zia
Maìa.
È da pochi anni, da adulta, che
ho potuto rivedere gli avvenimenti per quello che sono stati e quanto detto in
quella infelice occasione altro non fu
che "un modo di difendersi dando la colpa ad altri per le proprie
mancanze" messo in atto da mia mamma: modus operandi che utilizza ancora
oggi ogni volta che le conviene. Ma per la me adolescente fu lacerante, fu come
se "mi avessero strappato il cuore a
morsi". E Attila in soccorso, presente e confortante!
Mi viene da piangere ancora oggi
ripensando a quando dopo aver fatto la spesa se nel resto mi veniva dato un
gettone al posto delle "duecento lire" lo usavo per telefonare:
volevo sentire una voce amica a Vajont, ma poi forse mangiavo ancora di più:
"il dolore della perdita" è sempre stata la leva più potente per
svegliare Attila e lo è ancora oggi.
È di questi giorni l'ennesima
situazione in cui non mi sono sentita capita, passi da mia madre, ma anche da
chi mi sta vicino e il senso di "solitudine" per non essere
"vista/accettata" o meglio che "non vengano viste le emozioni
che provo e i miei bisogni", mi fa scattare Attila e la voglia di mangiare. Non va bene.
La cosa più semplice sarebbe eliminare
le situazioni/persone che mi fanno sentire così ma sarebbe una strada sbagliata
anche se semplice ed efficace perché ci sarà sempre una situazione o una
persona che mi potrà far "sentire così" e non posso continuare ad
eliminare. Quello che devo eliminare è la mia scarsa autostima, devo imparare a
tirare fuori il mio disagio e a farlo presente anche se diventa ingombrante e
può portare le persone a volersi allontanare, i miei bisogni non dovranno mai
più essere messi in secondo piano per nessuno.
Con mia mamma ancora lo faccio,
preferisco stare zitta laddove invece con gli altri vado via dritta e dura. Ma
lei è il mio personale tallone di Achille e non so quando veramente riuscirò a
sentirmi libera con lei. Intanto iniziamo dal contorno, chissà che questo non
mi renda più forte.
Sono stati quattro anni ( il
quinto anno il collegio chiuse e rimasi a Vajont da sola) tra alti e bassi, tra
chili presi e chili persi, nel frattempo zio Giovanni si uccise e quel po di me
che restava se ne andò con lui: qui un angelo venne in mio soccorso, ma questa
ve la racconto un'altra volta.
Alla prossima!