giovedì 26 aprile 2018

IL PRIMO ROVESCIO DELLA MEDAGLIA

Si sa, ogni storia d'amore degna di questa definizione, qualunque sia la sua natura ( romantica, affettiva, familiare) vive di momenti belli e di altri meno belli.
Purtroppo o per fortuna l'essere umano ha la memoria corta e tende a dimenticare la forza distruttiva di certi dolori a favore delle cose belle, a volte però questi dolori sono così devastanti che si instaura un "trauma".
Sono da sempre convinta che il nostro cervello, inteso qui come mente in primis ma anche come organo in certe situazioni (per esempio il coma), ha la capacità di sopravvivere e rimettersi "in marcia" da solo. Il suo più grande nemico siamo noi: l'uomo ha fatto del "mettersi i bastoni tra le ruote" uno sport olimpico.
Mi spiego: tutti noi abbiamo una capacità innata che viene definita "resilienza" cioè la capacità di far fronte agli eventi improvvisi ed altamente stressanti e superarli, ognuno con i propri personali ritmi. Sta a noi decidere se quello che ci succede può essere inteso come "ulteriore" esperienza di vita ( in positivo o negativo) oppure essere considerato così devastante da frenare la nostra evoluzione.
Chiaramente non si può generalizzare ma in linea di massima difficilmente siamo portati a pensare che tutto quello che ci accade, nel bene e nel male, in fondo possa essere propulsione positiva ad evolvere come essere umani.
Nel momento in cui ti accade qualcosa di brutto o di difficile gestione è normale passare le prime 48/72 ore in uno stato di "aspetta che non me ne rendo conto" oppure "no non è vero non è possibile", poi piano piano la grandezza di quanto sta accadendo viene alla luce e lì si innescano i meccanismi personali di valutazione della situazione.
Penso che in questo, potenzialmente, i bambini siano quelli più fortunati e non i più sfortunati come molti, leggendo, potrebbero pensare. Il bambino infatti non sa se una determinata situazione è piacevole/spiacevole, sicura/insicura da solo ma lo "impara" attraverso le reazioni degli adulti. Sta quindi a noi, far in modo che i bambini possano superare positivamente le prime grandi prove della vita che poi li metteranno al sicuro in"panchina" rispetto al gioco del "mettersi i bastoni tra le ruote" perché cresciuti equilibrati, con un alto senso critico e un'ottima capacità di valutazione "obiettiva" delle singole situazioni, tra cui appunto i "rovesci di medaglia" e l'esperienza del lutto sopra tutti.

Il primo dei "miei rovesci della medaglia", quello che oggi ha preso connotazione diversa rispetto ad allora, fu il rapporto con mio cugino. Come vi ho accennato mal mi sopportava e spesso mi sgridava aspramente, per esempio per un voto insufficiente a scuola: era lui che oramai diventato maggiorenne, mi firmava il libretto scolastico. Quante me ne sono sentite! Non mi ha mai picchiato, ma quanto urlava! Come vi avevo già accentato è da pochissimo che un uomo arrabbiato non mi fa più paura: dopo un lungo percorso di risoluzione e accettazione.

La casa degli zii aveva soltanto due camere da letto e quindi io dividevo la stanza con mio cugino, che se da piccola poteva andare bene, da adolescente proprio non mi andava giù: dovevo avere i suoi orari  e se nel sonno parlavo troppo la mattina dopo se non mi sgridava minimo mi prendeva in giro per almeno una settimana! Lavorava in fabbrica e si alzava molto presto, alla sera era compito mio preparare il boiler a legna in cantina, dove lo zio aveva ricavato una doccia per evitare che si entrasse sporchi in casa. Non potevo sedere sulla sua poltrona in salotto e durante i pasti il "catino della pasta" era esclusivo per lui, se dopo aver mangiato avevo ancora fame e mia zia non era nei paraggi, semplicemente mi tenevo la fame: " non ti serve mangiare che sei una balena", o in dialetto "podrelo".
Rispetto mio cugino oggi come allora anche se qualcosa dentro di me si è spezzato il giorno in cui lo zio si è ucciso. È una ferita che tra noi non si è mai rimarginata o almeno non da parte mia. Oggi di questo "rovescio della medaglia" non mi resta che una nitida sensazione di allerta e pericolo ma per quanto io abbia provato ad approfondire non ho ricordi particolari legati a questa specifica sensazione che possano giustificarla.


Come vi avevo accennato zia Maìa era un personcina particolare e l'atteggiamento grezzo e sbrigativo che aveva nelle relazioni lo aveva anche verso se stessa e la sua salute.
Lei non aveva vizi ( fumo, bere ecc), era un poco in carne e una gran lavoratrice ma ahimè di dottori non ne voleva sentir parlare.
Mi hanno sempre propinato la storia che noi siamo tendenti ad avere quasi tutte il "gozzo", un pomo di adamo particolarmente pronunciato. Mi veniva detto che era una caratteristica familiare dovuta alla carenza di iodio negli alimenti e che me lo dovevo tenere perché "ce lo avevamo tutte". A me sinceramente a parte la zia e me medesima non mi pareva che le altre "donne di famiglia" ne fossero provviste. Come vi ho già raccontato però, se mia madre diceva qualcosa, che fosse vero o meno, era così e basta.
Fatto sta che a zia Maìa avevano diagnosticato "problemi di tiroide" ( ipertiroidismo), per cui le era stato prescritto il Tapazole. Alcuni anni dopo le dissero che era il caso di togliere la tiroide perché compromessa. Non volle sentire ragioni. Fu la sua testardaggine a portarla alla morte in modo atroce poco tempo dopo, il 17 maggio del 1989.

Zia compiva gli anni il 1 di aprile, poco dopo il suo compleanno iniziò ad accusare dei devastati sintomi di demenza tanto che in pochi giorni non sapeva nemmeno più a cosa servisse il cucchiaio per mangiare la minestra. Piano a piano ci fu un'insufficienza multiorgano e in breve  tempo morì. Passò l'ultimo giorno quasi completamente, per fortuna sua, in stato comatoso.
Morì verso le 20/21 di sera, ricordo che in quel periodo i miei venivano giù da Tarvisio tutte le sere e stavamo mangiando delle cigliege (come con la mortadella anche qui passeranno anni prima che io le mangi nuovamente nonostante siano il mio frutto preferito).
In ospedale con la zia c'era suo fratello, uno dei miei zii preferiti che per fortuna ha avuto una vita lunga e me lo sono goduto fino al 2014.
Squillò il telefono, volli rispondere. Lo zio mi chiese di poter parlare con la mamma e mi disse di stare tranquilla. Poco dopo i miei partirono alla volta dell'ospedale, non mi vollero con loro dicendo che andavano solo a dare il cambio allo zio. Dentro di me sapevo che mi stava lasciando e quanto li ho odiati in quel momento! Volevo solo poterle dire addio e darle un ultimo bacio ma vigeva la regola ferrea del "sei troppo piccola" e non ci fu nulla da fare.
Ricordo che poco dopo la loro partenza mi venne sonno e andai a stendermi sul letto, ho questo nitido ricordo nel dormiveglia della sua voce che mi sussurrava "shh piccola io sto bene e tu sarai sempre nel mio cuore, sii forte". Avrei scoperto dopo che quello fu l'esatto momento della sua morte.
Mi svegliai di soprassalto e uscii a sedermi sulle scale al fresco. Verso le 22.30 papà tornò a casa da solo ( queste incombenze saranno sempre per lui), si sedette con me, mi guardò fisso negli occhi e mi disse semplicemente "mi dispiace".
Al primo istante lo abbracciai e poi cominciai ad insultarlo come una mitragliatrice per quello che "mi avevano fatto", in fondo l'amavo da morire e non avevo potuto salutarla o forse chissà "salvarla con il suono della mia voce perché insieme eravamo speciali".
Mi dispiace ancora oggi, anche se probabilmente lo aveva capito, di aver trattato il mio vecchio in quel modo: in fondo se c'era qualcuno da biasimare era mia madre e non lui. È sempre lei quella che decideva e decide qualsiasi cosa.
I medici ci vollero vedere chiaro e decisero di effettuare un'autopsia, spettava a mio zio e a mio cugino chiedere il risultato. Si rifiutarono di farlo.
La tredicenne di allora sapeva solo soffrire per la perdita di colei che considerava "madre" a tutti gli effetti, anche se zia Maìa mai mi permise di chiamarla mamma ( quanto ci soffrivo!). Quello che fu veramente devastante oltre alla perdita fu ed è il non sapere che cosa se la sia effettivamente  portata via.
Io non riuscii a farmene una ragione per anni, fino a quando all'università cercai di vederci chiaro con le poche informazioni che avevo e una spiegazione, secondo me abbastanza vicina alla realtà, me la sono data di quello che le è effettivamente successo: il tapazole é un farmaco altamente tossico soprattutto a danno del cuore e del cervello. l'assunzione prolungata può provocare gravi scompensi cardiaci e in alcuni casi seri problemi neurologici. Questo spiegava la necessità dell' intervento chirurgico che forse le avrebbe salvato la vita. Per un caso della vita molti anni dopo nel 2013, mi ritrovo io a doverla togliere la tiroide per un tumore maligno.


Da quel giorno e fino alla fine degli esami di terza media non mi sarà consentito di tornare a stare dallo zio e da mio cugino, che vedevo solo a pranzo la domenica, ma rimango a casa dei miei genitori da sola. Loro partivano al mattino e rientravano alla sera da Tarvisio. Dopo la solita estate tarvisiana, mi mettono in collegio a Pordenone per i quattro anni successivi.
Devo capire ancora oggi perché prima potevo stare dagli zii e una volta morta la zia non più: mia madre si rifiuta ancora di rispondere.

È l'estate del 1992, il 21 giugno, quando ancora una volta a ora di cena squilla il dannato telefono ma nella casa di Tarvisio questa volta.
Mia madre risponde, mette giù il telefono, si gira verso di me e mio padre che siamo a tavola e ci dice "Nani ( lo zio), si è sparato".
Ricordo di averle chiesto: "è ancora vivo?", mi disse di si. Mi alzai di scatto e iniziai a preparare le mie cose e per fortuna non fece storie e partimmo alla volta di Vajont. Purtroppo un ingorgo in autostrada frenò la nostra corsa e per arrivare ci mettemmo circa quattro ore. 

Non l'ho mai più rivisto sveglio. Non ha mai ripreso conoscenza ed è morto una quindicina di giorni dopo, il 6 luglio del 1992 alle 23.45, quindici minuti prima del mio compleanno.

Questa morte come quella della zia per me rimane un grosso punto interrogativo. In genere se ti vuoi veramente suicidare ti spari in un posto dove sei sicuro di morire sul colpo e non di sicuro nella milza con un vecchio fucile. Zio era un alcolista e dalla morte della zia non si è mai ripreso, la psicologa che è in me sa che può essere una spiegazione plausibile( depressione maggiore) ma io ancora oggi, non so perché, ma fino in fondo questa spiegazione non la sento per niente mia.
Probabilmente è il dolore a farmi parlare e a non farmi essere obiettiva come dovrei, fatto sta che questa è la "realtà che io percepisco come vera" e tanto basta alla mia mente per elaborarla come tale. Che macchina maligna e allo stesso tempo magnifica è la mente!

Dalla morte dello zio, mio cugino smette di venire da noi a pranzo la domenica e piano piano ci allontaniamo. Sono costretta a chiudere nell'oblio la mia infanzia e i tanti punti interrogativi che porta con sé, cui non avrò mai risposta.
Alla prossima, con il "secondo rovescio della medaglia".