Si sa, ogni storia d'amore degna
di questa definizione, qualunque sia la sua natura ( romantica, affettiva,
familiare) vive di momenti belli e di altri meno belli.
Purtroppo o per fortuna l'essere
umano ha la memoria corta e tende a dimenticare la forza distruttiva di certi
dolori a favore delle cose belle, a volte però questi dolori sono così
devastanti che si instaura un "trauma".
Sono da sempre convinta che il
nostro cervello, inteso qui come mente in primis ma anche come organo in certe
situazioni (per esempio il coma), ha la capacità di sopravvivere e rimettersi
"in marcia" da solo. Il suo più grande nemico siamo noi: l'uomo ha
fatto del "mettersi i bastoni tra le ruote" uno sport olimpico.
Mi spiego: tutti noi abbiamo una
capacità innata che viene definita "resilienza" cioè la capacità di
far fronte agli eventi improvvisi ed altamente stressanti e superarli, ognuno
con i propri personali ritmi. Sta a noi decidere se quello che ci succede può
essere inteso come "ulteriore" esperienza di vita ( in positivo o
negativo) oppure essere considerato così devastante da frenare la nostra
evoluzione.
Chiaramente non si può
generalizzare ma in linea di massima difficilmente siamo portati a pensare che
tutto quello che ci accade, nel bene e nel male, in fondo possa essere
propulsione positiva ad evolvere come essere umani.
Nel momento in cui ti accade
qualcosa di brutto o di difficile gestione è normale passare le prime 48/72 ore
in uno stato di "aspetta che non me ne rendo conto" oppure "no
non è vero non è possibile", poi piano piano la grandezza di quanto sta accadendo
viene alla luce e lì si innescano i meccanismi personali di valutazione della
situazione.
Penso che in questo,
potenzialmente, i bambini siano quelli più fortunati e non i più sfortunati
come molti, leggendo, potrebbero pensare. Il bambino infatti non sa se una
determinata situazione è piacevole/spiacevole, sicura/insicura da solo ma lo
"impara" attraverso le reazioni degli adulti. Sta quindi a noi, far
in modo che i bambini possano superare positivamente le prime grandi prove
della vita che poi li metteranno al sicuro in"panchina" rispetto al
gioco del "mettersi i bastoni tra le ruote" perché cresciuti
equilibrati, con un alto senso critico e un'ottima capacità di valutazione
"obiettiva" delle singole situazioni, tra cui appunto i "rovesci
di medaglia" e l'esperienza del lutto sopra tutti.
Il primo dei "miei rovesci
della medaglia", quello che oggi ha preso connotazione diversa rispetto ad
allora, fu il rapporto con mio cugino. Come vi ho accennato mal mi sopportava e
spesso mi sgridava aspramente, per esempio per un voto insufficiente a scuola: era
lui che oramai diventato maggiorenne, mi firmava il libretto scolastico. Quante
me ne sono sentite! Non mi ha mai picchiato, ma quanto urlava! Come vi avevo
già accentato è da pochissimo che un uomo arrabbiato non mi fa più paura: dopo
un lungo percorso di risoluzione e accettazione.
La casa degli zii aveva soltanto
due camere da letto e quindi io dividevo la stanza con mio cugino, che se da
piccola poteva andare bene, da adolescente proprio non mi andava giù: dovevo
avere i suoi orari e se nel sonno parlavo
troppo la mattina dopo se non mi sgridava minimo mi prendeva in giro per almeno
una settimana! Lavorava in fabbrica e si alzava molto presto, alla sera era
compito mio preparare il boiler a legna in cantina, dove lo zio aveva ricavato
una doccia per evitare che si entrasse sporchi in casa. Non potevo sedere sulla
sua poltrona in salotto e durante i pasti il "catino della pasta" era
esclusivo per lui, se dopo aver mangiato avevo ancora fame e mia zia non era
nei paraggi, semplicemente mi tenevo la fame: " non ti serve mangiare che
sei una balena", o in dialetto "podrelo".
Rispetto mio cugino oggi come
allora anche se qualcosa dentro di me si è spezzato il giorno in cui lo zio si
è ucciso. È una ferita che tra noi non si è mai rimarginata o almeno non da
parte mia. Oggi di questo "rovescio della medaglia" non mi resta che
una nitida sensazione di allerta e pericolo ma per quanto io abbia provato ad
approfondire non ho ricordi particolari legati a questa specifica sensazione
che possano giustificarla.
Come vi avevo accennato zia Maìa
era un personcina particolare e l'atteggiamento grezzo e sbrigativo che aveva
nelle relazioni lo aveva anche verso se stessa e la sua salute.
Lei non aveva vizi ( fumo, bere
ecc), era un poco in carne e una gran lavoratrice ma ahimè di dottori non ne
voleva sentir parlare.
Mi hanno sempre propinato la
storia che noi siamo tendenti ad avere quasi tutte il "gozzo", un
pomo di adamo particolarmente pronunciato. Mi veniva detto che era una
caratteristica familiare dovuta alla carenza di iodio negli alimenti e che me
lo dovevo tenere perché "ce lo avevamo tutte". A me sinceramente a
parte la zia e me medesima non mi pareva che le altre "donne di
famiglia" ne fossero provviste. Come vi ho già raccontato però, se mia
madre diceva qualcosa, che fosse vero o meno, era così e basta.
Fatto sta che a zia Maìa avevano
diagnosticato "problemi di tiroide" ( ipertiroidismo), per cui le era
stato prescritto il Tapazole. Alcuni anni dopo le dissero che era il caso di
togliere la tiroide perché compromessa. Non volle sentire ragioni. Fu la sua
testardaggine a portarla alla morte in modo atroce poco tempo dopo, il 17
maggio del 1989.
Zia compiva gli anni il 1 di
aprile, poco dopo il suo compleanno iniziò ad accusare dei devastati sintomi di
demenza tanto che in pochi giorni non sapeva nemmeno più a cosa servisse il
cucchiaio per mangiare la minestra. Piano a piano ci fu un'insufficienza
multiorgano e in breve tempo morì. Passò
l'ultimo giorno quasi completamente, per fortuna sua, in stato comatoso.
Morì verso le 20/21 di sera,
ricordo che in quel periodo i miei venivano giù da Tarvisio tutte le sere e
stavamo mangiando delle cigliege (come con la mortadella anche qui passeranno
anni prima che io le mangi nuovamente nonostante siano il mio frutto preferito).
In ospedale con la zia c'era suo fratello, uno dei miei zii preferiti che per
fortuna ha avuto una vita lunga e me lo sono goduto fino al 2014.
Squillò il telefono, volli
rispondere. Lo zio mi chiese di poter parlare con la mamma e mi disse di stare
tranquilla. Poco dopo i miei partirono alla volta dell'ospedale, non mi vollero
con loro dicendo che andavano solo a dare il cambio allo zio. Dentro di me
sapevo che mi stava lasciando e quanto li ho odiati in quel momento! Volevo
solo poterle dire addio e darle un ultimo bacio ma vigeva la regola ferrea del
"sei troppo piccola" e non ci fu nulla da fare.
Ricordo che poco dopo la loro partenza
mi venne sonno e andai a stendermi sul letto, ho questo nitido ricordo nel
dormiveglia della sua voce che mi sussurrava "shh piccola io sto bene e tu
sarai sempre nel mio cuore, sii forte". Avrei scoperto dopo che quello fu
l'esatto momento della sua morte.
Mi svegliai di soprassalto e
uscii a sedermi sulle scale al fresco. Verso le 22.30 papà tornò a casa da solo
( queste incombenze saranno sempre per lui), si sedette con me, mi guardò fisso
negli occhi e mi disse semplicemente "mi dispiace".
Al primo istante lo abbracciai e
poi cominciai ad insultarlo come una mitragliatrice per quello che "mi
avevano fatto", in fondo l'amavo da morire e non avevo potuto salutarla o
forse chissà "salvarla con il suono della mia voce perché insieme eravamo
speciali".
Mi dispiace ancora oggi, anche se
probabilmente lo aveva capito, di aver trattato il mio vecchio in quel modo: in
fondo se c'era qualcuno da biasimare era mia madre e non lui. È sempre lei
quella che decideva e decide qualsiasi cosa.
I medici ci vollero vedere chiaro
e decisero di effettuare un'autopsia, spettava a mio zio e a mio cugino
chiedere il risultato. Si rifiutarono di farlo.
La tredicenne di allora sapeva
solo soffrire per la perdita di colei che considerava "madre" a tutti
gli effetti, anche se zia Maìa mai mi permise di chiamarla mamma ( quanto ci
soffrivo!). Quello che fu veramente devastante oltre alla perdita fu ed è il non
sapere che cosa se la sia effettivamente portata via.
Io non riuscii a farmene una
ragione per anni, fino a quando all'università cercai di vederci chiaro con le
poche informazioni che avevo e una spiegazione, secondo me abbastanza vicina
alla realtà, me la sono data di quello che le è effettivamente successo: il tapazole é un farmaco altamente tossico soprattutto a danno
del cuore e del cervello. l'assunzione prolungata può provocare gravi scompensi cardiaci e in alcuni casi
seri problemi neurologici. Questo spiegava la necessità dell' intervento chirurgico che forse le avrebbe salvato la vita. Per un caso della vita molti anni dopo nel 2013, mi ritrovo io a doverla togliere la tiroide per un tumore maligno.
Da quel giorno e fino alla fine
degli esami di terza media non mi sarà consentito di tornare a stare dallo
zio e da mio cugino, che vedevo solo a pranzo la domenica, ma rimango a casa
dei miei genitori da sola. Loro partivano al mattino e rientravano alla sera da
Tarvisio. Dopo la solita estate tarvisiana, mi mettono in collegio a Pordenone
per i quattro anni successivi.
Devo capire ancora oggi perché
prima potevo stare dagli zii e una volta morta la zia non più: mia madre si
rifiuta ancora di rispondere.
È l'estate del 1992, il 21 giugno, quando
ancora una volta a ora di cena squilla il dannato telefono ma nella casa di
Tarvisio questa volta.
Mia madre risponde, mette giù il
telefono, si gira verso di me e mio padre che siamo a tavola e ci dice
"Nani ( lo zio), si è sparato".
Ricordo di averle chiesto:
"è ancora vivo?", mi disse di si. Mi alzai di scatto e iniziai a
preparare le mie cose e per fortuna non fece storie e partimmo alla volta di
Vajont. Purtroppo un ingorgo in autostrada frenò la nostra corsa e per arrivare
ci mettemmo circa quattro ore.
Non l'ho mai più rivisto sveglio. Non ha mai
ripreso conoscenza ed è morto una quindicina di giorni dopo, il 6 luglio del
1992 alle 23.45, quindici minuti prima del mio compleanno.
Questa morte come quella della
zia per me rimane un grosso punto interrogativo. In genere se ti vuoi veramente
suicidare ti spari in un posto dove sei sicuro di morire sul colpo e non di
sicuro nella milza con un vecchio fucile. Zio era un alcolista e dalla morte
della zia non si è mai ripreso, la psicologa che è in me sa che può essere una
spiegazione plausibile( depressione maggiore) ma io ancora oggi, non so perché, ma fino in fondo
questa spiegazione non la sento per niente mia.
Probabilmente è il dolore a farmi
parlare e a non farmi essere obiettiva come dovrei, fatto sta che questa è la
"realtà che io percepisco come vera" e tanto basta alla mia mente per
elaborarla come tale. Che macchina maligna e allo stesso tempo magnifica è la
mente!
Dalla morte dello zio, mio cugino
smette di venire da noi a pranzo la domenica e piano piano ci allontaniamo.
Sono costretta a chiudere nell'oblio la mia infanzia e i tanti punti
interrogativi che porta con sé, cui non avrò mai risposta.
Alla prossima, con il
"secondo rovescio della medaglia".
Ti leggo sempre con piacere. Sono racconti intensissimi.
RispondiEliminaGrazie Maria Teresa!💓
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